La golosità... quando diventa tentazione da cui digiunare
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Cibo e Parola. In collaborazione con Maria di Chiamati alla Speranza.
DIGIUNARE PER NON CHIUDERE IL CUORE
L'episodio biblico del ricco epulone (Lc 16,19-32) che lascia letteralmente morire di fame il povero Lazzaro, nonostante quest'ultimo mendichi alla sua porta, rende chiaramente evidente l'insidia del vizio capitale noto come «gola»: aprire la bocca per riempirsi il ventre, ma chiudere il cuore, conducendo così l'anima alla morte eterna.
La golosità è l'esagerazione nei piaceri del cibo e dell'alimentazione, soprattutto quando provoca danni alla salute o quando per egoismo lo sottraiamo a chi ne ha bisogno.
(Vincenzo Bertolone, Traditio Fidei: conoscenza e amore? O amore e conoscenza... per essere felici, Arcidiocesi Metropolitana di Catanzaro-Squillace, 2012, n. 192, p. 65)
Morte del corpo o morte dell'anima?
Il brano lucano sottolinea con grande finezza (e senza filtri edulcolorativi) la grande disparità che passa tra le ingiustizie di questa terra e la giustizia del Regno dei cieli. Durante la sua esistenza terrena Lazzaro si trova a mendicare alla porta del ricco, ma non riceve nulla da lui. Anzi, l'epulone neppure lo vede. La sua golosità lo ha annebbiato a tal punto da non fargli avere occhi per i bisogni altrui.
Interviene però - e qui comincia il rovesciamento delle sorti - quella che Totò chiamava «'A livella», «La livella»: la morte. L'atto conclusivo della vita "materiale", quell'accadimento che tocca tutti, che rende ciascun essere uguale a un altro: mortale. «Un giorno il povero morì. Morì anche il ricco e fu sepolto» (v. 22).
Da questo iniziale punto di vista la morte realizza una prima attuazione di "giustizia". Né i soldi né il cibo possono comprare l'immortalità. L'egoismo cieco si trova a fare i conti con qualcosa che è ben più grande del potere o dei beni umani. Dinanzi alla fine della vita terrena non c'è più né povero né ricco. Semplicemente, ci sono esseri umani, caduchi. In una parola: mortali.
Luca sottolinea, però, che solo "oltre" l'esistenza materiale si compie la vera giustizia.
«E fu portato dagli angeli accanto ad Abramo»... si legge del povero Lazzaro (v. 22), mentre il ricco epulone viene condotto «negli inferi fra i tormenti» (v. 23).
Prima di questo punto si potrebbe dire che la parabola racconta l'amara vicenda di un povero mendicante, che muore nel corpo per la cecità "spirituale" di un uomo più fortunato di lui; ma il succo della storia è un altro. Si può morire nel corpo, ma non nell'anima, così come si può morire nel corpo e anche nell'anima. L'eccesso, la sfrenatezza nel consumo degli alimenti e delle bevande può ridurre l'uomo in uno stato di dipendenza da queste cose che, sebbene nutrano il corpo, rischiano di non nutrire l'anima, ma, addirittura, di ucciderla.
La tentazione della gola
Il problema si pone per ogni uomo, dal ricco al povero. L'attaccamento del cuore al cibo o all'alcool travalica il portafoglio, sebbene è naturale che a essere più tentati siano coloro che godono di maggiori disponibilità economiche. La valenza generale della questione è ben evidenziata nel Vangelo, nel passo che riporta le tentazioni di Cristo nel deserto (Mt 4,1-11). Queste includono anche quella della gola, che, anzi, è la prima a essere presentata. Il demonio invoglia Gesù con questa proposta: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane» (v. 3).
Allo stesso modo - scriveva sant'Antonio di Padova nei suoi Sermoni - «il diavolo mentre digiuniamo ci tenta di gola, con la quale pecchiamo in cinque modi» secondo quanto affermato da san Gregorio: «troppo presto, quando si anticipa l'ora [del pasto].
Lautamente, quando si eccita la golosità e si vuole risvegliare un appetito fiacco con condimenti, spezie e sontuosità di cibi.
Troppo, quando si ingurgita più cibo di quanto sia necessario al corpo.
Voracemente, quando l'uomo si getta su ogni cibo quasi andasse all'assalto di un forte, apre le braccia, allunga le mani, e mangia con tutto se stesso: a tavola è come un cane che, in cucina, non tellera rivali.
Con raffinatezza, quando si cercano cibi squisiti e si preparano con grande ricercatezza» [1].
Compensazione alla fame d'affetto?
«La radice di questo peccato è un desiderio d’appagamento immediato del corpo per mezzo di qualche cosa di materiale che provoca compiacimento. Il rapporto col cibo è un problema serio che investe molti aspetti legati all’esistenza: il cibo è la prima condizione di esistenza e spetta al cibo e alla gola mettere in scena un tema che non è alimentare, ma profondamente esistenziale, perché va alla radice dell’accettazione o del rifiuto di sé. Al di là dei disturbi dell’alimentazione, che necessitano di adeguati trattamenti psicologici, si assiste spesso ad episodi apparentemente “normali”, dietro ai quali si può intravedere un rapporto col cibo non completamente sereno» [2].
Il cibo e l'alcool, quando diventano oggetto di desiderio smodato, possono essere la compensazione piacevole a un disagio, a una fame non di alimenti o bevande, ma di affetto, tanto nella dimensione della mancata autostima, della non accettazione del proprio io, quanto in quella della carenza affettiva interrelazionale.
Nutrire l'anima o disgregarla?
«Nell’Antico Testamento anima è detta dalla parola ebraica nefesh. La radice di questa parola designa anche una parte del corpo, la gola e forse anche lo stomaco. Inoltre nefesh indica anche la fame e la sete che la gola e lo stomaco risentono. Dunque l’anima rappresenta nel suo significato più letterale una preoccupazione corporale. Il peccato di gola è una disgregazione dell’anima, del nefesh: la sete di vita cerca di essere saziata in modo scomposto, sbagliamo il bersaglio (peccato traduce il greco amartoleo che significa appunto sbagliare bersaglio). Non cerchiamo la vera risposta alla nostra sete e presto proviamo di nuovo il bisogno di dissetarci: ci chiudiamo in una catena di risposte parziali e insoddisfacenti.
In fondo il problema del peccato di gola è che ci si accontenta di risposte che non sono risposte alla nostra vera domanda: “cosa sazierà la mia vita?”. La gola risponde “questo per un po’ ti può riempire!”. Ogni peccato di gola è una risposta sbagliata che ci nasconde un vero bisogno. Ogni vizio è una passione scomposta che crea in noi un’incapacità di leggere ciò che veramente ci abita nel cuore. La gola può essere vista come un rifugio nell’edonismo: cerchiamo piaceri per alienarci da una situazione che non riusciamo a dominare, in cui ci sentiamo morire. Un peccato di gola è un atto attraverso cui si svela un modo di vedere la vita: la vita è prendere, offrire a se stessi, accumulare per sé senza alcuna condivisione, è divorare consumare la propria e altrui vita» [3].
NUTRIRSI PER NUTRIRE
«Anche alcune forme di religiosità scomposta possono essere un modo di saziarsi, di sentirsi “pieni”. Condannati all’egoismo, i golosi non conoscono e difficilmente capiscono cosa è il vero piacere: darsi, perdersi per gli altri, diventare pane che un altro può mangiare, fare di noi stessi pane eucaristico. Un goloso non capisce Dio: un dono di sé che si fa pane per la nostra vita, invece di mangiare da se stesso da mangiare e ci invita a fare lo stesso (cf. la moltiplicazione dei pani). La cura per i peccati di gola va cercata non solo nella morigerazione o in una continua mortificazione dei sensi, ma nel fare una vita ricca e gratificante, nel farsi cercatori di quel gusto che è il sapore dell’amore di Dio nella nostra vita» [4]. Solo in questa prospettiva il cibo può essere visto nella sua duplice accezione: mezzo che fa da «legame vivo (nell'Eucaristia) con il Creatore, ma anche legame indispensabile (per il sostentamento) con il Creato» [5]. In tal senso è possibile (e anche doveroso, per un cristiano) riequilibrare il proprio rapporto con gli alimenti e le bevande, riuscendo a scoprire anche la valenza simbolica del mangiare e del bere.
La compassione che anima Gesù nell'episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 14, 31-21) esprime la vocazione dell'uomo a farsi dono-nutrimento per gli altri, come Dio si è fatto nutrimento per l'uomo; la generosità del ragazzo che mette a disposizione ciò che ha evidenzia la capacità di condividere le risorse (non importa che siano poche o molte!); il miracolo dei pani preannuncia l'istituzione dell'Eucaristia; la chiamata di Gesù ai suoi discepoli, affinché loro stessi diano «loro da mangiare» (v. 16) è sintomatica della necessità di una collaborazione umana per affrontare il problema della fame che assedia non solo le bocche, ma anche e soprattutto le anime.
Proprio i discepoli sono infatti i più recalcitranti. Osservano la scena con occhi troppo razionali. Vorrebbero che ciascuno di quelli tra la folla provvedesse - in qualche modo - a reperire per conto proprio il sostentamento per il corpo. Gesù li invita a superare questa mentalità della "ristrettezza". Quella stessa mentalità che alberga molte volte nel cuore di ogni uomo, attraverso mille scuse per non esprimersi in quell'atto di misericordia che è «dar da mangiare agli affamati».
Ma, scriveva san Leone Magno: «Il nutrimento di chi ha bisogno sia sostenuto dai nostri digiuni. Al Signore infatti nessun'altra devozione dei fedeli piace più di quella rivolta ai suoi poveri, e dove trova una misericordia premurosa là riconosce il segno della sua bontà. Non si abbia timore, in queste donazioni di diminuire i propri beni, perché la benevolenza stessa è già un gran bene, né può mancare lo spazio alla generosità, dove Cristo sfama ed è sfamato. In tutte queste opere interviene quella mano, che spezzando il pane lo fa crescere e distribuendolo agli altri lo moltiplica» [6].
NOTE
[1] Sant'Antonio di Padova, I Sermoni, Edizioni Messaggero di Padova, 2005, p. 95.
[2] Paolo Benanti, La gola: un desiderio inappagato dell'anima, Blog Bibbia Francescana (a cura dell'Editrice Messaggero di Padova), 8 luglio 2015.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Enza Minniti, Filastrocche a tavola, Cibo in 3D, La Rondine, 2015, p. 9.
[6] San Leone Magno, Discorso 10 sulla Quaresima.
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